'La Bolla dell'Autismo' Capitolo 3 Storia del termine Autismo

CONSULTI PER BAMBINI ADOLESCENTI E FAMIGLIE

Da La Bolla dell'Autismo, G Benedetti, aprile 2020.

Capitolo 3

Cenni di storia del termine ‘autismo’

Il termine ‘autismo’ (dal greco autòs, che significa sé stesso, con varie sfumature) fu coniato all’inizio del novecento dal direttore del manicomio di Zurigo, lo psichiatra Eugen Bleuler, per descrivere il comportamento/ sintomo di molti pazienti schizofrenici del suo ospedale, che si chiudevano in sé stessi e non prestavano attenzione al mondo intorno a loro. Essendo persone ricoverate in manicomio spesso da diversi anni e sapendo come erano i manicomi, forse il loro ‘sintomo’ non era poi così strano, ma la psichiatria per lo più non teneva (non tiene…) conto dell’ambiente.

Anche lo psicologo svizzero J. Piaget negli anni '30 adoperò il termine 'autistico', ma in un altro contesto, per descrivere quella che considerava una fase transitoria dello sviluppo del pensiero e del linguaggio nel bambino, nel periodo che egli chiamò di 'egocentrismo infantile'. In questo caso autistico era usato nel significato di rivolto a sé stesso e non ancora agli altri.

Poi usò il termine ‘autistico’ applicandolo ai bambini Leo Kanner, psichiatra infantile austriaco emigrato in America nel primo dopoguerra, che nei primi anni ’40 coniò la formula ‘autismo infantile precoce’ per dare un’etichetta diagnostica a un gruppo di bambini che attrassero la sua attenzione. Anche se molto diversi fra loro erano accomunati da un distacco e da una chiusura marcata rispetto all’ambiente e da particolari comportamenti. Da allora il termine 'autismo' si impose nell'uso e nelle diagnosi mediche. Kanner stesso di fronte al dilagare della sua diagnosi mise in guardia contro il rischio di trasformarla in un calderone per contenere le cose più diverse1.

Più o meno contemporaneamente un altro medico austriaco, il dr Hans Asperger aveva usato il termine 'autistico' per dei bambini che chiamò ‘psicopatici autistici’ - e forse ne consegnò qualcuno ai nazisti dopo l’annessione dell’Austria al terzo Reich, per il programma nazista di eliminazione dei malati mentali (come scrive Herwig Czech in un recente articolo molto documentato 2).

Prima ancora, nel 1926, una dottoressa russa, di nome Ewa Ssucharewa, aveva chiamato 'psicopatici schizoidi' un gruppo di bambini simili. In quegli anni la Russia era percorsa da gruppi di bambini abbandonati a se stessi, laceri e affamati, che vivevano di espedienti, di cui solo recentemente si è tornato a parlare (L. Mecacci3). Negli stessi anni la psicoanalista Melanie Klein descrisse quello che a posteriori fu ritenuto come il primo esempio di trattamento psicoanalitico di un bambino autistico. Lei parlò però di 'schizofrenia', anche se con delle riserve. Ci torneremo nelle Appendici.

Negli anni seguenti una dottoressa tedesca, uscita dalla Germania per sfuggire al nazismo, di nome Lula Wolff, in Scozia, si occupò a sua volta di bambini che descrisse come ‘schizoidi’ e riconobbe come simili ai casi di Ssuchareva e di Asperger.
In tutti questi casi, in gran parte ricoverati in reparti psichiatrici e istituti per bambini, non si fa cenno delle condizioni ambientali, tranne che, di passaggio, nel resoconto di M. Klein.

‘Autistico’ e ‘schizoide’ furono quindi aggettivi usati in modo equivalente, per un periodo, fino a che il concetto di ‘spettro autistico’ inglobò tutti questi termini, unificando infine in una sola etichetta i bambini in questione e differenziandoli solo su una scala di gravità. Il 'calderone' temuto e preconizzato da Kanner si era realizzato.

In tutte queste situazioni venne sempre sostenuto che le cause erano di natura costituzionale prima, genetica poi e che non si doveva dare la ‘colpa’ alle situazioni ambientali, alle famiglie, che invece come è noto erano state chiamate in causa all’inizio dal dr Kanner e, sulla sua scia, da psichiatri e psicoanalisti come Bruno Bettelheim, Margareth Mahler, Frances Tustin e altri. Si pontificava anzi che la “Ricerca Scientifica” aveva dimostrato che la situazione ambientale e familiare non c'entrava per niente.

Ovviamente non si trattava di 'colpe', ma di possibili cause ambientali legate alle esperienze delle varie famiglie, cioè a possibili fattori psico-sociali, che sono fattori concausali ampiamente riconosciuti per la gran parte delle difficoltà psicologiche e psichiatriche nell'ambito della moderna psichiatria bio-psico-sociale.

In effetti dagli anni 70 in poi, a causa di questo mito o spettro della 'colpa dei genitori', divenne un tabù occuparsi delle condizioni ambientali in cui erano cresciuti i bambini considerati ‘autistici’ e venne dichiarata inattendibile e
'non scientifica' qualsiasi ipotesi di influenza ambientale sul loro sviluppo psichico. Venne dichiarato ufficialmente che l’autismo e lo spettro autistico sono ‘disturbi
del neurosviluppo' (in inglese suona meglio: “neurodevelopmental disorders”) dovuti a cause sicuramente genetiche. E questa è la posizione ufficiale della 'scienza' oggi. Ma di ciò come si diceva non c'è la benché minima prova provata, si tratta solo della convinzione delle 'autorità' in materia: una verità sostenuta solo dall' Ipse dixit, come il criterio base della scolastica medioevale, che non è certo il massimo del metodo scientifico.

Solo recentemente, per il fallimento della genetica nell’individuare delle cause precise a livello di geni specifici, viene qua e là richiamata in causa una possibile componente ambientale che avrebbe un effetto scatenante sulla manifestazione della sindrome, e ci si accorge di colpo che mancano studi in proposito. Tra l'altro, in una timida ripresa della ricerca scientifica sugli aspetti ambientali, studi recenti stanno mostrando che le esperienze ambientali, in particolare l'abuso e la trascuratezza, hanno un effetto visibile sulla crescita anatomica e sul funzionamento di determinate aree cerebrali. (C. Zeanah4). Anche nel cervello la funzione crea la struttura, come recitava un vecchio adagio medico.

C'è da aggiungere un cenno sul cosiddetto 'autismo istituzionale', termine venuto in voga negli anni 90, in studi e resoconti che riguardavano bambini adottati provenienti da orfanatrofi dell’Europa orientale nell'ultimo decennio del secolo scorso. Si è notato che parecchi di questi bambini avevano segni e sintomi sovrapponibili con quelli dei normali bambini autistici e che, se la permanenza in istituto non era stata troppo lunga e se l'esperienza di adozione era positiva, questi bambini perdevano abbastanza rapidamente le caratteristiche autistiche e riprendevano il loro sviluppo (Vedi Appendice 3).

Qualcuno forse ricorderà che osservazioni simili erano state fatte nel secondo dopoguerra da psicoanalisti come R. Spitz, Anna Freud e altri che si erano occupati dei bambini inglesi durante l'ultima guerra. Non è d'altronde fuori luogo l'osservazione che ancora negli anni ‘70 e 80’ anche in Italia negli istituti per bambini si trovavano molti casi di autismo, fra l'altro in bambini e ragazzi affetti da trisomia 21, mentre ora i bambini con questa sindrome genetica non mostrano quasi più sintomi di autismo. Sembrerebbe un segno evidente, quasi per un esperimento sociale, dell'importanza delle condizioni ambientali per lo sviluppo psicologico normale e patologico.

_________________________

AVVISO IMPORTANTE: i consulti on/line hanno solo valore di consigli e non intendono sostituire in alcun modo la visita medica o psicologica diretta.