'La Bolla dell'Autismo' Capitolo 8 Le sindromi del rifiuto

CONSULTI PER BAMBINI ADOLESCENTI E FAMIGLIE

Da La Bolla dell'Autismo, G Benedetti, aprile 2020.

Capitolo 8

Le sindromi del rifiuto

Nell'ambito delle manifestazioni comportamentali di cui è chiamato spesso ad occuparsi il neuropsichiatra infantile o lo psichiatra ci sono situazioni che sembrano caratterizzate da un rifiuto cosciente da parte dell'interessato di adattarsi a richieste sociali tipiche delle diverse età. Questo rifiuto pone spesso il soggetto in contrasto con familiari e istituzioni, e talvolta evoca il ricorso a diagnosi psichiatriche per spiegarne e 'curarne' il comportamento. Il nome per indicare queste situazioni potrebbe essere ‘sindromi del rifiuto’.
Nelle diverse età tale comportamento prende aspetti diversi.

Nell'età adulta troviamo ad esempio persone che a un certo punto si isolano dal loro contesto sociale, lasciando lavoro, famiglia e spesso scompaiono letteralmente senza essere più ritrovati. Se ne occupano trasmissioni tipo 'Chi l'ha visto', ecc. Ci sono casi abbastanza famosi, intorno a cui sono sorte storie più o meno misteriose e romanzate, tipo quella del fisico nucleare Ettore Majorana, scomparso alla fine degli anni trenta, sul quale Sciascia scrisse un breve romanzo, o dell'economista Federico Caffè, scomparso dall'oggi al domani negli anni ottanta del secolo scorso.
Una volta, forse ancora, alcune persone abbandonavano la vita vissuta fino allora per ritirarsi nei conventi, d'altronde la vita monastica poteva attrarre uomini e donne non solo per vocazione religiosa o altri motivi ma anche per il ritiro dal mondo che comportava o permetteva.
Altre persone cambiano radicalmente vita a un certo punto della loro evoluzione, o partono per lunghi viaggi che li tolgono dall'ambiente abituale. Anche qui nelle motivazioni possibili rientra un rifiuto della situazione quo ante. Fin qui questi comportamenti non sono stati ancora etichettati dalla psichiatria con diagnosi allusive a qualche patologia cerebrale. In altri invece non è stato così.
Non possiamo dimenticare il rifiuto di vivere che è una delle motivazioni del suicidio, atto considerato generalmente di natura psichiatrica ma che oggi da varie parti è accettato in certe condizioni come scelta consapevole cui l’organizzazione sociale di certi stati fornisce supporto e assistenza.

Negli ultimi anni è arrivata all'attenzione anche dei mezzi di informazione, oltre che degli addetti ai lavori, la condizione di giovani adulti o tardo-adolescenti che letteralmente si chiudono in casa, nella loro stanza – descritti dapprima in Giappone, da cui il termine giapponese Hikikomori con cui sono conosciuti- e rifiutano contatti sociali con chiunque, limitandosi spesso a permettere alla madre di passare loro il cibo attraverso uno stretto pertugio socchiudendo la porta. Un ritiro totale dalla vita esterna reso possibile forse dall'ambiente familiare, in qualche modo condiscendente. Ho visto diverse di queste situazioni, negli anni, quasi tutte estremamente impervie da conoscere e di soluzione estremamente difficile. Altre di grado meno estreme, ma con evitamento di rapporti sociali e vita molto limitata, sono definite come 'fobia sociale', quando non sono associate ad altri sintomi che portano a diagnosi più gravi.

Troviamo un rifiuto anche alla base di situazioni descritte in altri contesti, di conflitti familiari e culturali, per certi aspetti controverse nell'interpretazione, ma sicuramente parte del campo psicologico individuale e di gruppo. Sono le cosiddette sindromi (non da tutti accettate) di Alienazione Genitoriale e Alienazione Culturale, in cui un ragazzo o una ragazza rifiutano improvvisamente un genitore o l'intera famiglia, con l'accusa di abusi e violenze, cercando di rompere ogni contatto con i rifiutati, resistendo strenuamente a ogni tentativo di modificare la situazione creatasi. Non mi addentro nelle motivazioni su cui esistono forti contrasti fra gli addetti ai lavori.

Sempre in età adolescenziale non possiamo dimenticare di citare il rifiuto del cibo che rappresenta la manifestazione più appariscente e caratterizzante dell’anoressia mentale.

Un altro comportamento simile, in età più giovane, all'epoca delle scuole elementari o medie, caratterizzato dal rifiuto – termine che compare anche nella definizione diagnostica che fanno psichiatri e psicologi infantili - è il 'rifiuto della scuola', o 'fobia scolare', che vede ragazzi e ragazze senza particolari problemi di apprendimento arrivare gradualmente o improvvisamente a rifiutarsi di andare a scuola, senza motivazioni evidenti legate all'ambiente scolastico. Si possono spesso trovare, approfondendo la conoscenza di questi casi, situazioni di difficoltà intra-familiari che creano un grande senso di insicurezza al bambino o ragazzo, come la malattia di un genitore o altro, che lo portano a non voler abbandonare la casa, quasi per il timore di non ritrovarla al ritorno.
Nella stessa età si trovano spesso situazioni e comportamenti caratterizzati dal rifiuto di adeguarsi a regole e limiti sociali e all'autorità degli adulti. Tali situazioni, che creano spesso gravi scompigli nelle scuole, sono oggi diagnosticate come 'disturbi oppositivo-provocatori'.

Retrocedendo nell'età, in epoca di scuola materna si trovano bambini che non parlano a scuola o fuori dell'ambiente familiare, anche se parlano bene in famiglia. Anche in questo caso il comportamento sembra esprimere un rifiuto, in questo caso di esprimersi con il linguaggio parlato, mentre aderiscono ad attività proposte e sono disponibili più o meno a comunicazioni non verbali. La diagnosi coniata dagli psichiatri per questi casi è di 'mutismo elettivo', poi modificato in mutismo 'selettivo', per qualche motivo, passando dal sottolineare la 'scelta' di non parlare al 'selezionare' le situazioni in cui il bimbo parla o meno. Forse è per negare che si tratti di una 'scelta' consapevole, preferendo pensare a un comportamento meno consapevole e determinato, evocato da ambienti 'selezionati'.

Infine, in età ancora più piccole, nel secondo e terzo anno di vita, e qui veniamo al tema che ci interessa, capita di vedere bambini che limitano il loro interesse e la loro relazione a oggetti, giochi, ecc, che usano in maniera adeguata, ma evitando completamente di avere a che fare con le persone. Sono bambini che mostrano spesso una comprensione e intelligenza normali ma tendono a non avere contatto con altri e non comunicano né parlano.

Un passo ulteriore è quello di bambini che non sono interessati né a persone né a oggetti, se non in modo limitato e spesso atipico, non usano gli oggetti e le persone secondo la loro funzione, ma li utilizzano con modalità idiosincratiche, come mezzi per raggiungere qualche cosa fuori della loro portata o per riempire il loro tempo. Questi bambini sembrano rifiutare il contatto e ritirarsi dalla vita sociale e anche dalle cose del mondo, non mostrando interesse ed evitando o reagendo con irritazione ai tentativi di coinvolgerli. Sono quelli che un tempo venivano per lo più diagnosticati come 'autistici'. Ora come sappiamo lo spettro autistico ha esteso il suo dominio a territori molto più ampi.

Tutti i comportamenti sopra descritti sono caratterizzati dal rifiuto e in diversa misura dal ritiro dall'ambiente sociale. Le conseguenze possono essere molto diverse a seconda dell'età in cui il rifiuto si manifesta. In un adulto le capacità globali maturate vengono di solito mantenute mentre nei soggetti in età evolutiva possono venire non acquisite o perdute molte capacità non ancora maturate o maturate solo da poco. Bambini di pochissimi anni possono non acquisire la gran parte delle capacità che dipendono dall'interazione sociale, come il linguaggio e le capacità di adattamento e di affrontare situazioni diverse nella vita quotidiana, creando così circoli viziosi di mancato apprendimento e aumento dell’isolamento.

Le situazioni descritte sono state quasi tutte in qualche modo ridotte a patologie psichiatriche, con diagnosi diverse, dall'Ikikomori (ancora manca una diagnosi 'occidentale'), alla fobia sociale, alla fobia o rifiuto scolare, al mutismo elettivo-selettivo, ecc... Nei bambini molto piccoli si è parlato dapprima di 'autismo' e poi di 'spettro autistico', con cui forse si sono creati più problemi -terminologici, diagnostici, epidemiologici- di quelli che si volevano risolvere.

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Chiunque abbia avuto contatto ed esperienza di rapporto con bambini cosiddetti autistici – non solo a livello di compilazione di test o di esecuzioni di calcoli di punteggi – si è trovato di fronte spesso al rifiuto da parte del bambino e alla sua strenua resistenza ad essere coinvolto in qualche modo in una relazione o condivisione. Il bambino che si dedica – in modo adeguato alla sua età – a giochi e oggetti, ma rifiuta ed evita con espressione impassibile il coinvolgimento con le persone, dà l'idea di una scelta in qualche modo consapevole di evitare questo tipo di esperienza, cioè la relazione con una persona.
Come dar conto di modalità di reazione apparentemente così diverse nelle diverse età, ma con caratteri così simili? Lesioni cerebrali, cellulari, alterazioni biochimiche che provocano una reazione di rifiuto e ritiro? Forse ci sono altre possibili spiegazioni, una a livello dello sviluppo psicologico normale, l’altro a livello filogenetico.

Nello sviluppo psichico normale, è da ricordare che troviamo un comportamento simile a quanto descritto sopra anche in situazioni diverse, non patologiche, bensì fisiologiche e caratteristiche di una fase dello sviluppo, quello cosiddetto della reazione all’estraneo. È noto a chiunque si occupi di bambini che verso la fine del primo anno di vita il bambino mostra diffidenza, rifiuto ed evitamento se entra in contatto con una persona sconosciuta, che diventa marcato disagio e pianto se non trova conforto in un familiare vicino a lui. In questa fase dello sviluppo psichico il bambino rifiuta la persona estranea e si rivolge automaticamente per protezione e consolazione alla madre o alla persona conosciuta. È anche l’epoca della difficoltà al distacco e alla separazione dalla persona conosciuta, che è manifestazione universale dei bambini nei primi giorni di ingresso al nido, a meno che ciò non avvenga prima dell’ottavo o nono mese quando il bambino non è ancora pienamente in grado di cogliere il distacco e la differenza fra le persone familiari e quelle estranee.

La reazione all’estraneo è una manifestazione fisiologica nello sviluppo dei bambini, utile filogeneticamente alla difesa della specie, con l’attaccamento alle persone conosciute e la diffidenza e l’allontanamento da quelle sconosciute.
Talvolta un bambino può avere questo atteggiamento anche dopo l’età della reazione all'estraneo, all'inizio della conoscenza con una persona nuova in determinate circostanze. In effetti un simile atteggiamento è ubiquitario anche negli adulti, in modo più o meno manifesto. Quasi tutti i bambini, ad esempio nella stanza di visita col medico, all'inizio sono guardinghi e diffidenti, ma poi verificano la situazione e se si sentono al sicuro e a loro agio hanno un'evoluzione talora molto rapida e molto evidente durante la visita, arrivando spesso a familiarizzare apertamente con la persona con cui sono entrati a contatto e a godere di un'esperienza relazionale significativa. Altre volte solo con tempi lunghi il bambino evolve positivamente in seduta, altre ancora non riesce a superare la diffidenza iniziale, mostrando così difficoltà varie nel suo sviluppo psicologico. L’evoluzione nella prima seduta dà così modo di fare valutazioni utili, anche prognosticamente.

Passando al livello filogenetico, cioè dell’evoluzione globale degli esseri viventi, è noto che a livello primitivo - nella scala biologica ma anche in quella della civiltà - la reazione più tipica di fronte a una situazione di pericolo, di allarme, non conosciuta, estranea, è quella chiamata di 'attacco-fuga'. Sembra che il soggetto abbia per difendersi solo l'alternativa fra attaccare o fuggire, in dipendenza dai rapporti di forza del momento. Prima di questa c'è forse, ancora più primitiva, la reazione dell'immobilità, del mimetismo con l'ambiente, per non essere visti dal predatore. Rispetto alla reazione di attacco-fuga mi vengono in mente certi bambini che mostrano un comportamento aggressivo e picchiano, mordono, graffiano coetanei e anche adulti, senza mostrare paura e sfidando anche rimproveri e punizioni o addirittura 'botte', con la tipica frase di sfida “non mi hai fatto niente”. Che questi bambini per qualche motivo attuino la soluzione dell'attacco, fra le due opzioni possibili?

Ma a parte questi bambini è comprensibile che a certi livelli di età, capacità e maturazione forse la sola alternativa disponibile possa essere la fuga, il rifiuto, il ritiro e l'evitamento, perché i rapporti di forza, per così dire, sono troppo sfavorevoli. Per cui quella di ritirarsi, evitare il contatto, rifiutarsi di rispondere, in una situazione percepita come pericolosa, appare una chiara 'scelta', pur se può essere difficile da accettare che la faccia un bambino così piccolo, come una volta ha commentato una mamma di fronte al comportamento evidente del proprio figlio in una seduta di osservazione.

Questa ipotesi è invece meno difficile da comprendere ed accettare in bambini più grandi, in adolescenti e in adulti, dove non sembra negabile che si tratti di una scelta, magari obbligata, anche se qualcuno troverà spiegazioni le più varie per far comunque rientrare questi comportamenti in comportamenti geneticamente e biochimicamente determinati…
L'immobilità e il mimetismo si potevano osservare con una certa frequenza nei manicomi e negli istituti di qualche decennio fa, dove un ricoverato poteva appiattirsi contro il muro o fermarsi immobile su una mattonella per ore, senza che nessuno badasse a lui, fino a non vederlo più.

Non abbiamo al momento spiegazioni sicure dei comportamenti descritti. Non possiamo però escludere che si manifestino in reazione ad esperienze percepite come negative, di disagio, di pericolo; siano cioè in qualche modo legate ad esperienze vissute. Da qualche situazione vista più da vicino sembra che tali reazioni possano rapidamente imporsi come abitudini, che col tempo diventano quasi automatiche ed obbligate e difficili da cambiare.

La reazione all'estraneo, di cui si è fatto cenno sopra, sembra fortemente evocativa come modello paradigmatico di reazione a una situazione di disagio, scatenata dalla percezione di estraneità come pericolosa in qualche modo. Legata alla tipica reazione alla separazione dal genitore, all'asilo o in altre occasioni, solitamente dura un periodo limitato ed è superata dal bambino nel suo sviluppo. Ma talora persiste molto più a lungo e crea le basi per un atteggiamento diffidente, 'timido' e in qualche modo restio ad affrontare esperienze nuove, che viene considerato di solito un aspetto di personalità, 'di carattere', come si dice, e non una specifica patologia (forse ancora per poco...).

L'esperienza dell'estraneo e quella della separazione sono d'altronde esperienze inevitabili nella realtà odierna; possiamo pensare che in altre epoche e in altre latitudini potessero esserci ambienti di vita fissi e immodificati in cui non si verificassero queste esperienze. Sicuramente l'organizzazione sociale moderna nel mondo occidentale -con le famiglie nucleari, gli asili nido, la vita in qualche modo regolamentata in base a esigenze sociali, lavorative, ecc. e non individuali, familiari, tanto meno ' a misura di bambino' ecc. – può rendere conto di una accentuazione di tali reazioni e della diffusione che le manifestazioni sopra descritte sembrano avere nei tempi recenti, culminate con l'epidemia di autismo che molti sostengono verificarsi.

Nelle manifestazioni adulte, adolescenziali e tardo-infantili- cioè dall'Hikikomori alla fobia sociale alle fobie scolari ai mutismi elettivi - è finora incontestato che si tratti di problematiche psicologiche, forse relazionali e familiari. Invece nelle manifestazioni infantili precoci -che ai test risultano solitamente tutte 'entro lo spettro autistico', se non nell'autismo tout-court – è inusuale che si parli di problematiche psicologiche, relazionali, familiari, mentre vige il dogma della causa biologica genetica, pur ancora sconosciuta.

Nell'attesa che la ricerca futura, forse opportunamente emendata e riorganizzata, dia risultati più convincenti di quanto ha fatto finora e chiarisca le possibili cause e rimedi, vale la pena – vista l'entità della posta in atto, lo sviluppo mentale totale della persona – tornare ad occuparsi anche delle esperienze che fanno i bambini nel loro ambiente, in modo da conoscere meglio i possibili motivi delle loro reazioni. L'approccio ai bambini caratterizzati da queste modalità di rifiuto, diffidenza e ritiro dovrebbe diventare un approccio a tutto campo, un lavoro da fare insieme alle famiglie per scoprire eventualmente se i loro bambini reagiscono a qualche situazione di disagio, magari non riconosciuta, magari 'normale' ma eccessiva per le sensibilità di quel bambino in quel dato momento. Ne va della possibilità di farli tornare su una strada di sviluppo che permetta la maturazione delle loro capacità mentali globali.

Il lavoro proposto non dovrebbe essere il trinomio obbligato ripetitivo e stereotipato 'psicomotricità-logopedia-terapia comportamentale', - ma un approccio mirato ad aiutare i genitori e i loro bambini ad affrontare le possibili difficoltà, proprio quello che Winnicott vedeva scomparire, rammaricandosi, per la scoperta dell''autismo'.

Neuropsichiatri e psicologi dovrebbero tornare ad occuparsi specificamente di sviluppo infantile, normale e alterato, e delle condizioni che possono favorirlo o ostacolarlo.

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AVVISO IMPORTANTE: i consulti on/line hanno solo valore di consigli e non intendono sostituire in alcun modo la visita medica o psicologica diretta.